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mercoledì 19 maggio 2010

L' ossesione della cyberforma.


L'ossessione della cyberforma
di Mara Accentura
Donne manipolate, digitalizzate, alienate. La psicanalista Susie Orbach analizza l'istancabile e pericolosa ricerca della perfezione


Stiamo vivendo un'emergenza sanitaria. Riguarda il nostro corpo, che nessuno ama così com'è e dove concentriamo ansia, odio, isteria, per non averlo troppo magro, troppo sexy, troppo giovane. Ma quanti di noi ne sono davvero consapevoli? Susie Orbach è la psicoterapeuta inglese che nel 1978 scrisse Fifi, come viene affettuosamente chiamato, Fat is a Feminist Issue in cui sosteneva che le diete distorcono la nostra relazione col cibo e alla lunga contribuiscono a farci ingrassare. Negli anni Novanta diventò famosissima per avere in cura - proprio per un disordine alimentare - la principessa Diana. Oggi torna a riflettere sul tema del corpo con un libro di denuncia Bodies, Profile Books. Molte cose sono cambiate da allora e se vogliamo peggiorate. Oggi il nostro rapporto col corpo è più alienato che mai e se le statistiche in crescita di interventi di chirurgia estetica, sebbene rallentate dalla crisi, esaltano la feticizzazione della giovinezza, quelle di di obesità e anoressia mettono in luce la patologizzazione dell'appetito. «Mangiare è diventato un problema per tantissime persone», dice Orbach, intervistata in esclusiva per D. «Il cibo è visto non con piacere ma con sospetto. E questo inizia precocemente. Molte ragazzine crescono con l'idea che stare a dieta è normale. Ma più stanno a dieta più sviluppano l'abitudine al bingeing». In pratica passano dal controllare minuziosamente il numero di calorie giornaliero allo strafogamento. «Pochi si rendono conto che l'industria dietetica si regge su una percentuale di recidività del 95 per cento. Altrimenti si starebbe a dieta una volta sola nella vita», continua Orbach che una volta ha persino tentato di portare in tribunale la WeightWatchers.

In pratica continuamo a comprare prodotti che hanno una percentuale altissima di fallimento. Non demordiamo. Nemmeno quando si tratta di modificare il corpo con la chirurgia, che è diventato una sorta di diritto costituzionale pari alla salute (in Argentina, tanto per dirne una, rientra nelle polizze assicurative). Se qualcuno mette in dubbio i picchi di follia della manipolazione rispondiamo: non è repressione ma simbolo di empowerment. Pochi di noi hanno l'impressione di essere vittime manovrate dall'industria dei media e della bellezza, lo consideriamo un insulto all'intelligenza. Ma - Michael Jackson riposi in pace - è davvero così? «Il risultato è che percepiamo il corpo come un campo di battaglia, un'entità instabile», spiega Orbach, «non più qualcosa che si sviluppa naturalmente a seconda del proprio Dna ma una costruzione culturale, un progetto su cui perseverare tutta la vita». E se non in questa almeno su Second Life, dove possiamo cambiare cyberidentità smanettando come artisti su una tastiera.

L'aspetto più inquietante però è che alla democratizzazione degli interventi sul corpo è corrisposto un impoverimento dei modelli. In altre parole miriamo tutti a delle immagini stereotipate, omogeneizzate che cancellano le differenze etniche, anagrafiche, di provenienza sociale.

Donne androgine, uomini metrosexual. La varietà dei visi e dei corpi è stigmatizzata. «Sophia Loren significava italiana», dice Orbach. «Lo capivamo tutti. Oggi le misurerebbero il BMI, l'indice di massa corporea, e le prescriverebbero una dieta per l'obesità». O magari una scorta di Alli, l'ultima pillola per dimagrire, che va a ruba nelle farmacie inglesi pur avendo imbarazzanti - improvvise diarree - effetti collaterali. Così le donne iraniane si rifanno il naso (solo nella città di Teheran ci sono 3000 chirurghi plastici, molti dei quali lavorano al ritmo di 5 rinoplastiche al giorno), le cinesi le palpebre, le occidentali gli zigomi, le labbra e quant'altro. «Per effetto della globalizzazione ragazzi delle isole Fiji, Nigeria, Korea desiderano gli stessi fisici, magri, emaciati, che non c'entrano nulla con quello originale. L'odio verso il proprio corpo è uno dei prodotti occidentali esportati con più successo nei Paesi in via di sviluppo». Nessun appello come quello della direttrice di Vogue UK Alexandra Shulman agli stilisti per taglie più comode (“i vostri abiti sono minuscoli. Siamo costrette a usare modelle troppo magre e poi a ritoccarle digitalmente per farle sembrare più grasse”, ha denunciato sul Times), nessuna cover di Beth Ditto, la cantante oversize ritratta da in modo superglamorous dal fashion magazine Love, sembra poter arrestare l'ondata. «Certo, Ditto contribuisce ad allargare la nostra percezione del bello ma non lo considero un vero balzo in avanti», dice Orbach.

Vestita e stilizzata, Ditto sembra persino voluttuosamente sexy, l'ultimo oggetto del desiderio maschile e femminile. Ma quante ore di Photoshop ci sono volute per rendere quelle immagini assolutamente impeccabili? E quanti sanno che ormai il 90 per cento delle foto che guardiamo sui giornali è stilizzato digitalmente e che ogni vera star impiega un addetto al ritocco delle proprie foto? Solo nel numero di marzo 2008 di Vogue Usa il mago del retouching, Pascal Dangin, ha manipolato 144 immagini: 107 pubblicità, 36 foto di moda e la cover. Di certo l'industria dei media ha una parte di responsabilità nel propagandare immagini irraggiungibili e irreali di perfezione ma per Orbach il lavoro inizia in famiglia. Sono le mamme, forse più che il peer pressure, le amichette, a trasmettere per prime alle figlie l'ansia rispetto al corpo. «Non commettete l'errore di criticare il vostro aspetto davanti ai bambini», dice. Quando le racconto che ho una figlia che si lamenta della pancetta a 12 anni immediatamente suggerisce: «Le ripeta semplicemente questo: “mi piacerebbe che potessi vederti come ti vedo io. Bellissima”. Perché tra qualche anno sarà già troppo tardi»

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